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Volti coperti, vite mutilate

| Gianluca Kamal |

In fondo, c’era da aspettarselo. Almeno per coloro i quali, sin dal giorno 1 dell’Era Covid, intravedendo già i primi inequivocabili segnali di una società in profondo mutamento, hanno spinto le loro analisi ben oltre l’angusto campo della scienza medica e dei dati su contagi e decessi quotidianamente rimbalzati da un emittente all’altra di quel famigerato tubo catodico, vera fonte di sapere per una larga parte di italiani. C’era da aspettarsi, insomma, che anche una volta dismesso (dallo scorso venerdì 11 febbraio) l’obbligo governativo di indossare all’aperto la pezza sul volto in molti avrebbero continuato a utilizzarla, proseguendo, a loro dire, lungo la via della “prudenza, del buon senso e del rispetto per gli altri”. Per uno Zangrillo che parla apertamente di “preoccupante psicosi collettiva, figlia dell’ignoranza, della disinformazione e dell’irrazionalità”, vi è un pronto Andrea Gori, primario di Malattie Infettive al Policlinico di Milano, che invita “ad evitare gli slogan e tenere un atteggiamento scientifico, dopo tutto quel che è successo”. Un atteggiamento “scientifico”, già. Ancora riecheggia la candida confessione di un serafico Pregliasco secondo cui “la mascherina, anche e soprattutto all’aperto, altro non è che un simbolo”. Al di là di qualsivoglia motivazione medico-scientifica, con buona pace del primario ospedaliero poc’anzi citato. La funzione simbolica, peraltro ammessa dalla stessa tribù medico-scientifica, non dev’essere infatti trascurata in fase di inquadramento della fase storica attuale. Il cencio all’aperto serve anzitutto a segnalare a tutti e a ciascuno che vi è una situazione di pericolo, che l’emergenza non è venuta meno, che l’altro non è un amico ma un potenziale appestato da cui prendere le distanze. Senza considerare gli aspetti legati all’annullamento delle relazioni possibili causata dalla sparizione dei volti.


Un primo test di collaudo di quella che da norma atta a prevenire il contagio si è presto trasformata in abitudine pienamente introiettata dalle menti e dalle coscienze obnubilate di una alquanto larga fetta di popolazione italiana, si è avuto ad estate 2021, il 28 giugno per l’esattezza. Decade l’obbligo di mascherina all’aperto (con temperature vicine ai 35 gradi, a virus clinicamente inesistente, con tassi di influenze e raffreddori prossimi allo 0), eppure in molti, in spiaggia o in altura, al volante (!) o passeggiando sul lungomare, ancora coperti, chi malcelando il grugno di chi con la testa non ne uscirà mai, chi più timidamente, tenendo a freno con fatica quel selvaggio e ancestrale istinto ribelle di scoprirsi almeno il naso. Si trattò di un vera e propria verifica: in quanti si sarebbero liberati con gioia e sollievo dalla fetida (e antiumana) raccomandazione pur potendo, a norma di legge? Quanti “disobbedirono” allora adottarono le stesse ragioni di oggi (“non mi fido”, “mi sento più sicuro”, “lo faccio per gli altri”), a pandemia pressoché conclusa e tasso di vaccinazioni completate per la quasi totalità degli “aventi diritto”.


Ad anno II dell’Era Covid compiuto rimettere insieme i cocci di una società frantumata nella sua essenza significa tentare di ritornare ad Itaca senza nemmeno le navi e uno straccio di equipaggio cui fare affidamento. Dinanzi allo sguardo, cupo e rassegnato, di un bambino con la maschera che gli comprime il volto e gli toglie il respiro; dinanzi alla socialità mutilata, al tempo rubato, al sorriso negato, all’odio seminato dai media, all’atomizzazione della società caratterizzante il nostro dissennato evo, ad una vita di continuo calpestata, malmenata, sconvolta, ecco, non più ci sentiamo di vibrare il grido che risveglia, il grido che ridesta. Un popolo scopertosi ipocondriaco altro forse non attendeva che la sua eutanasia. Perché il Covid non è stato una semplice influenza o un banale stato febbrile, né un raffreddore o un malanno stagionale. Esso è stato ed è, prima di tutto e sopra ogni altro discorso, una malattia dell’anima. Che non passerà.

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