Gabriele, un uomo morto (e vissuto) più volte
Quante volte è morto Gabriele d’Annunzio? L’interrogativo suona tanto più intrigante quanto più si considera quante volte sia vissuto il poeta imaginifico. Un uomo che la vita sua se l’è giocata tutta: soldato, romanziere, poeta vertiginoso che volle essere onorato come una divinità e oggi, ma un pò meno che ieri, è ancora pigliato a uova in faccia da un’editoria voluttuosamente indifferente al suo ricordo. Perchè il punto non è cosa piace, ma di chi stiamo parlando (o scrivendo). Per quanto misurare il grado di candida purezza dei poeti, che tali sono perchè hanno l’anima lurida e qualcosa da farsi sempre perdonare, poco giovi alla costruzione di un giudizio complessivo di una figura così enorme e controversa, d’Annunzio ha fondato la nostra identità moderna. Letteraria, eroica, anarchica. E’ dentro le nostre vene anche quando vorremmo tagliarcele. Così immedesimato quest’uomo era nello spirito della gente, come si trova scritto nell’elzeviro de La Stampa del 2 marzo 1938, il giorno dopo la “morte eterna”: “Gabriele d’Annunzio è morto! D’un tratto, la notizia coglie e percuote le fantasie e i cuori, come alcunchè di assurdo e inverosimile. (…) da cinquant’anni era la sua presenza nella storia nostra, e nel pensiero e negli affetti, così sovrastante ed eccelsa, che se non l’idea stessa di perennità, certo, oscuramente, misteriosamente, pareva legata ormai alla sua immagine, eroica, l’idea della necessità”.
LE INNUMEREVOLI “MORTI ANNUNCIATE”
Il cupio dissolvi non poteva, dunque, essere per il Vate, uomo d’armi e di amori, semplice fatto letterario o moto dell’anima. Tutte quelle “morti annunciate”, vagheggiate e immaginate, costellano tutta la vita di d’Annunzio. Nel novembre 1880, a 17 anni, annuncia la propria morte “cadendo da cavallo sulla strada di Francavilla” di modo da catturare l’attenzione necessaria all’imminente uscita della seconda edizione della raccolta di versi Primo vere. Qualche decennio dopo, costretto a letto e con un occhio bendato, dichiara solennemente di sapere che sarebbe morto tra il 1905 ed il 1906. Ancora, nel 1908, mentre vive nella villa “La Versiliana”, annuncia ai parenti la sua morte per il 7 aprile di quello stesso anno: lo aveva predetto una maga fiorentina. All’amico e architetto del Vittoriale Gian Carlo Maroni, come riportato nel Libro segreto, scrive, nel luglio 1937: “Tu sai, tu indovini, che io sono in punto di morte”, o ancora, nel febbraio 1938 a Tom Antongini: “Credo che sono morto come il cavalier Baiardo all’assedio di Brescia…L’anniversario cadrà poco prima del mio marzo funebre”. Come sappiamo, il “marzo funebre” giungerà: il primo giorno del mese è una emorragia cerebrale a stroncare fatalmente la vita del Poeta. Cosa ci rimane di questa sequela di annunci preconizzatori sulla propria fine? Ci dicono non solo qualcosa di letterario, estetizzante, decadente, ma forse di una profezia che egli vuole si avveri, una morte non solo “annunciata”, allusiva, ma anche cercata ed infine, ottenuta.
LE TRE MORTI
Il Vate e la morte, un rapporto stretto. Tre sono le morti che egli “sente” sue. La prima ce la racconta nel Libro segreto: “nel nascere io fui come imbavagliato dalla morte; sicchè non diedi grido, nè avrei potuto trarre il primo respiro a vivere, se mani esperte e pronte non avessero rotto i nodi e lacerata quella specie di tonaca spegnitrice”. Quella “prima morte” venne evitata attraverso una pratica di magia tradizionale che consisteva nel “corazzare” con ben 400 monete d’argento il suo corpicino e di appendergli al collo un “abitino” contenente pezzi del legamento del suo cordone ombelicale.
La “seconda morte” è costituita dal passaggio dalla giovinezza alla maturità: “da che lotto e soffro non mi sono mai sentito morire come oggi. (…) Tutto, pensieri sogni ricordi rimpianti, propositi desideri passioni glorie miserie, tutto vi passa; e non è niente. Bisogna che io imbalsami infine il cadavere della giovinezza, che fasciato di bende io lo chiuda tra quattro assi e che io faccia passare per quella porta, ove lo spettro della vecchiaia è apparso tra i battenti socchiusi e con un accenno quasi familiare mi ha augurato il buon giorno”.
Terza morte del Vate è il Volo dell’Arcangelo, ovvero la caduta, quel 13 agosto 1922, dalla finestra della Stanza della Musica al Vittoriale, battendo la testa su una pietra sottostante e rimanendo in coma per 12 giorni. Dinamica e motivi di quel “volo” restano a tutt’oggi avvolti nel mistero. Risvgliatosi, scrive versi visionari nei quali il “volatore caduto” si professa alunno di Postvorta, la divinità romana del passato.
La vecchiaia mise il Poeta dinanzi al momento supremo, tanto avvicinato e al pari allontanato ma infine giunto ad un punto di non rinviabilità. Il mistero ultimo, insondabile, che Gabriele lascia ai posteri lascia aperta la porta di un ipotetico suicidio, evocato e al tempo stesso nascosto nella frase presente ancora nel Libro segreto: “ma chi era presente? chi vide? chi mai potrà ridire?”. Memorie, simboli, intuizioni poetiche, immagini e deliri, visioni e sogni: tutto in d’Annunzio sembra parlare di morte. Tutto, in realtà, parla di vita.
Classe 1985, milanese di nascita e di crescita (il cognome, del resto, lo testimonia), spendo la vita in occupazioni perfettamente inutili e passioni meravigliosamente crudeli, di quelle, per intenderci, “che non ti portano da nessuna parte”. Appassionato studioso di storia, unica scienza capace di leggere il presente e predire il futuro, ha narrato le vite di grandi figure del passato accarezzate dal vento della pazzia attraverso il podcast La Festa dei Folli (che proseguirà). Per Pensiero Verticale, oltre che del coordinamento generale del progetto, cura i programmi web-radio I podcast di Pensiero Verticale e Zambracca.