Il manifesto politico di J.D. Vance
Vance è una figura assurta alla fama internazionale per il suo romanzo del 2016 Hillybilly Elegy, letteralmente elegia hillybilly, termine che si potrebbe tradurre con “montanaro” o “buzzurro” e che Vance, nella sua opera di successo rivendica costantemente con orgoglio. Il romanzo, che tanto sa di manifesto politico, è una autobiografia dello stesso Vance e dal testo si evince, ancora una volta, quanto le ferite della Guerra di Secessione non si siano mai rimarginate del tutto e quanto profonde siano le faglie presenti nel cuore dell’impero a stelle e strisce (autorevoli sondaggi rilevano che il 37% degli intervistati, ad oggi, vuole la secessione). Il libro narra la storia di un ragazzo nato e vissuto tra il Kentucky e l’Ohio nel cuore del malessere socioeconomico americano, al centro del processo di deindustrializzazione della cosiddetta Rust Belt, la regione che compresa tra i monti Appalachi e i Grandi laghi, avviatosi in seguito alle politiche di globalizzazione e delocalizzazione di un neoliberismo imperante.
Un disagio in cui ad essere protagonisti sono gli hillybilly, buzzurri incastrati nel labirintico dilemma che
oscilla tra l’obbligatorietà della mobilità e l’inevitabilità all’immobilità, condannati a un’esistenza sul ciglio
del dissesto economico causa di una precarietà esistenziale in cui divampa l’epidemia di droga che per
paradosso avrebbe le sue radici in Cina (oppioidi tra cui il famigerato Fentanyl, la cui potenza, per la ridicola somma di nove dollari, risulta essere cinquanta volte più intensa dell’eroina) e impera una rassegnazione alimentata da sussidi.
Vance parla della – e alla – povertà bianca, quella che Hollywood preferisce far finta che, in pieno ossequio al dogma politicamente corretto del multiculturalismo, non esista preferendole di gran lunga la vittimizzazione nera ottenendo contemporaneamente due mirabolanti risultati: continuare ad esercitare razzismo nei confronti dei bianchi, spesso appellati white trash, e mantenere l’ascendente – leggasi sottomissione – nei confronti delle minoranze, neri in primis. L’epopea di Vance lo porterà ad arruolarsi nel corpo dei marines e partecipare alla guerra in Iraq, per poi laurearsi all’università dell’Ohio e terminare gli studi in legge presso la Yale University, perla dell’Ivy League e fucina d’eccellenza della classe dirigente made in USA.
LEGGERE TRA LE RIGHE
Sia il romanzo, che la trasposizione Netflix, tinteggiano quello che a tutti gli effetti può essere letto come la realizzazione del sogno americano: la storia di un ragazzo svantaggiato capace di raggiungere l’apice del successo grazie alla determinazione e al duro lavoro. Ma il messaggio politico non si ferma qui, l’opera di Vance, come già detto, si rivolge a un determinato tipo di pubblico, è quindi necessario decifrarne il contenuto cogliendone alcuni dettagli partendo dall’elemento razziale – identitario: dietro al termine spesso utilizzato di Scotch-Irish, parola proferita esclusivamente entro il perimetro statunitense, si ritrova un richiamo alla classe dirigente bianca, in questo caso di origine anglosassone, nei prossimi decenni destinata a divenire minoranza.
Il concetto di famiglia adoperato è quanto più lontano da quello considerato “tradizionale”: Vance è infatti cresciuto dalla nonna (Mammaw), la sua non è una famiglia ma una tribù allargata e caotica i cui membri sono interscambiali e in cui il legame di sangue e difesa dell’onore sono declinati al livello più basale. Il concetto di comunità è pressoché minimale e occasionale e si regge esclusivamente sul principio inviolabile di un individualismo dalle forti tinte calviniste – sebbene Vance si dica cattolico; si è battezzato nel 2019 – sostenitore della limitazione dei poteri statali, conflitto duro a morire a queste latitudini.
CESURE E FAGLIE DELL’IMPERO A STELLE E STRISCE
Al di sotto del ridonante e talvolta semplificativo binomio che intercorre tra costa ed entroterra, sinonimo di metropoli liberal e contee conservatrici, si celano innumerevoli contraddizioni e contrapposizioni di cui, una delle più interessanti perché simbolo della crisi d’identità, è quella in cui l’America ciondola tra oggetto e soggetto della storia. Il primo lo si può ascrivere in buona parte ai Dem la cui corrente liberal-progressista risulta essere prevalente; per costoro l’occidente, assimilabile principalmente agli Stati Uniti e ai relativi clientes, a livello interno deve affrontare un processo di normalizzazione, passando possibilmente attraverso le forche caudine della colpevolizzazione condita da una buona dose di odio di sé stessi, quella che il filosofo inglese Roger Scruton chiamava oikofobia e di cui le influenti correnti radicali che si rifanno ad Alexandra Ocasio Cortez ne costituiscono i principali promotori, in politica estera permane la necessità universalista di esportare la democrazia.
STATI UNITI SOGGETTO DELLA STORIA
Nel partito Repubblicano (GOP) ormai a trazione degli slogan avversi alle correnti Neocon come America
First e Make America Once Great Again permane invece l’idea che gli Stati Uniti siano il soggetto della
storia, a livello interno viene data quindi enfasi alla ricostruzione della classe media, a dimostrazione che
l’America è anche spaccata tra classi, e viene respinto ogni tentativo di colpevolizzazione, puntando su un
rinvigorimento di quello che durante la presidenza Roosevelt fu definito forgotten man, lo stesso che Hillary Clinton, in un momento di rara miopia politica, etichettò come “basket of deplorables”.
Senza farsi abbagliare dalle demagogiche inveterate riservate nei confronti delle grandi corporate si evince, ancora una volta, la vera natura oligarchica e plutocratica statunitense grazie al legame stretto che intercorre tra Vance e il fondatore di Paypal Peter Thiel: dopo essersi laureato a Yale, Vance ha lavorato presso lo studio legale Sidley Austin LLP per poi unirsi, come venture capitalist, alla Mithril Capital di Peter Thiel a San Francisco. Thiel ha successivamente speso più di dieci milioni di dollari a sostegno di Vance durante la sua corsa al Senato del 2022.
LA POLITICA ESTERA CHE VERRA’ (MA CHE E’ GIA’ QUI)
In tema di politica estera i messaggi del duo Trump/Vance sembrano chiari: la reindustrializzazione prevede principalmente un approccio ancora più duro nei confronti dell’Europa. È infatti evidente il già menzionato economicismo in cui il Vecchio Continente si è crogiolato fino a qualche anno fa, non essendo più funzionale a una visione strategica è ormai giunto ai titoli di coda; una eventuale presidenza Trump/Vance riattiverà il braccio di ferro sui dazi già inaugurato da Trump, accelerando il processo di deindustrializzazione già in atto in Europa a sua volta gravato dalla maggiorazione dei costi delle materie prime, imporrà una maggiore partecipazione economica alla Nato, a cui si aggiungerà la futura ricostruzione dell’Ucraina, con buona pace dei “patrioti” nostrani. E’ lo stesso Vance a ribadirlo alla convention d’investitura di Millwakee: “No more free rides for Nations that betray the generosity of the American taxpayer!”.
Restando in tema di politica estera, Vance si è detto più volte critico nei confronti dell’intervento statunitense in Iraq e del supporto economico e militare all’Ucraina, sostenendo che dovesse essere l’Europa a sobbarcarsi il peso economico della stessa Ucraina. In merito al conflitto in atto in Terra Santa la posizione di Vance non si discosta da quella dell’intero apparato americano: Vance, che già nel 2015 era un oppositore dell’accordo sul nucleare iraniano, è un fervente sostenitore degli aiuti a Israele e secondo Trackaipac avrebbe già ricevuto finanziamenti da Aipac, gruppo di pressione noto a livello internazionale per il supporto a Israele.
Nel mirino della coppia Trump/Vance c’è la Cina, vero obiettivo strategico per la stragrande maggioranza dei think tank a stelle e strisce. Usando le note categorie diffuse dall’accademico Walter Russel Mead potremmo annoverare i Dem entro la scuola wilsoniana, la quale associa all’impegno americano nel mondo un significato moralista e universalista e il GOP a trazione Trump/Vance tra i jacksoniani i quali antepongono il benessere economico interno agli interventi militari in politica estera, sebbene questo non significhi una sterzata isolazionista, termine tanto fuorviante e lontano dalla realtà quanto il blaterato non interventismo di Donald Trump, riprendendo ancora le parole di Vance: “Together we will send our kids to war only when we must.[…] When we punch we’re going to punch hard!”.
Chiunque dovesse prevalere alla corsa per la Casa Bianca il destino dell’Europa rimane lo stesso.
Nasce a Rimini, classe 1984, si divide tra impegni legati al mondo degli investimenti immobiliari, dell’editoria e delle iniziative culturali. E’ responsabile regionale dell’associazione culturale Identità Europea. E’ autore di diversi volumi e collabora da anni con varie testate giornalistiche locali e nazionali, toccando in particolare temi di geopolitica e di approfondimento culturale.