Sopravvivere nella ‘Nuova Normalità’: intervista al Dott. Giulio Maria Pedone
Il Dottor Giulio Maria Pedone è specialista in Oftalmologia, è stato Primario ospedaliero a Roma per 15 anni presso l’Ospedale Nuovo “Regina Margherita” e l’Ospedale “George Eastman”. Ha diretto per conto dell’Azienda Sanitaria Asl Roma il “Salvator Mundi International Hospital” ed è stato successivamente Direttore di Unità Operativa Complessa presso l’Azienda Universitaria Ospedaliera “Policlinico Umberto I – La Sapienza”, sempre a Roma.
Dottore, domanda volutamente provocatoria: perché schierarsi “dalla parte del torto” in tema di vaccinazioni anti-Covid?
Senza scomodare Brecht, direi perché all’epoca nessuno l’aveva definita così; insieme a tanti miei colleghi mi sono messo in quella che l’esperienza e la preparazione scientifica mi indicavano come la parte dove un medico dovrebbe stare nell’interesse di un malato, quella dell’osservazione del caso e dell’applicazione delle pratiche terapeutiche comunemente utilizzate per risolvere al meglio la situazione. Risulta perlomeno curioso che, in un sistema che ha sempre incoraggiato la scoperta di nuove e più efficaci forme di lotta alle malattie, questa volta ci sia stata una diffusa fossilizzazione ossessiva nel negare tutto quello che fino ad allora aveva funzionato ed un allinearsi altrettanto ossessivo all’utilizzo di farmaci e pratiche che chiunque avrebbe dovuto sapere che non avrebbero avuto alcuna efficacia preventiva o curativa. Perché, lo sottolineo, la preparazione scientifica di qualsiasi medico avrebbe dovuto essere sufficiente per rendersene conto. Quindi la mia posizione “dalla parte del torto”, condivisa da molti più colleghi di quanto non sia stato evidenziato, è stata quella che qualsiasi esercente una professione sanitaria avrebbe dovuto tenere e che rivendico ancor oggi come l’unica eticamente accettabile.
In una delle sue conferenze ha parlato di “Nuova Normalità” alla quale Pensiero Verticale ha dedicato in passato un’ampia rubrica. Cosa rappresenta quest’espressione per lei?
Credo che in campo sanitario rappresenti la risultante dell’allineamento di una parte consistente della classe medica ed infermieristica non più a criteri di medicina ippocratica, basata sull’esperienza e sulla miglior pratica clinica, ma a spinte e comportamenti irrazionali dipendenti da un diffuso ed acritico scientismo. Questo determina il traghettamento delle normali abitudini di valutazione clinica e terapeutica da ciò che per il singolo malato rappresenta la miglior soluzione verso una soluzione unica per tutti e, probabilmente, non ottimale per nessuno.
La cosa più singolare è che questo venne, e talora viene ancora accettato, come ‘normale’ e senza sollevare alcuna critica, determinando la nascita di nuovi rapporti fra il medico ed i suoi pazienti, i quali perdono la loro individualità e diventano soltanto campi passivi di applicazione di teorie e di metodiche decise altrove ed in modo perlomeno astratto ed impersonale. I famosi ‘protocolli’, così diffusi in quel periodo e a cui molti medici si sono attenuti in maniera quasi fanatica, ne rappresentano un esempio paradigmatico: da semplici consigli di valutazione e terapia – quali effettivamente sono – furono trasformati in nuove tavole della legge da osservare scrupolosamente e sono stati la causa di un numero di decessi ad oggi non quantificabile. Essi, ad oggi, rappresentano ancora l’icona di una nuova normalità che intrappola un numero fin troppo importante di medici, i quali sembrano non percepire come questo rappresenti per loro una grave e pericolosa limitazione per l’esercizio dell’attività professionale.
Lei è intervenuto in una delle presentazioni della raccolta “Volevo solo tornare a casa” basata sulle testimonianze delle vittime del Covid-19. Da medico, qual è il suo punto di vista su questa vicenda?
Prima che da medico, vorrei dire che – da persona normale – la serie di testimonianze portate mi fa letteralmente orrore: si ha la sensazione che, in quelle vicende, le persone si trasformino da ricoverati in un ospedale ad internati in un crudele istituto di pena, dove perdono ogni diritto civile e la loro stessa identità per trasformarsi in soggetti passivi cui applicare schemi e metodiche di intervento decise a priori.
Come medico, l’orrore raddoppia e per diversi motivi: l’assenza totale di rispetto ed empatia verso i malati, l’annullamento della loro volontà, la sottrazione della possibilità di farli comunicare all’esterno, la negazione delle visite per i familiari, la negazione del loro diritto di autodeterminazione e di scelta, il mancato uso delle normali metodiche di cura e l’applicazione forzata di metodiche terapeutiche palesemente inutili e dannose (Cpap ed intubazione). In altre parole, un condensato di comportamenti che sarebbero stati di solito il motivo di inchiesta disciplinare e che la nuova normalità intervenuta, anche sotto un pretesto emergenziale, ha consentito di tollerare senza opposizioni.
Alla luce dei racconti presenti nel libro, è stato fatto davvero tutto il possibile per salvarle?
In piena sincerità, in molti casi temo di no. Il rifiuto di visitare i pazienti al loro domicilio e l’indisponibilità a curarli a casa nelle prime fasi della malattia hanno determinato nella maggioranza dei casi il loro peggioramento, rendendone inevitabile l’ospedalizzazione. A questo, aggiungiamo l’incredibile consenso di molti medici all’utilizzo – suggerito dalle linee guida ministeriali – di farmaci inutili e dannosi quali il paracetamolo, che non solo non evitava l’infiammazione alla base di ogni malattia respiratoria acuta, ma diminuiva loro la resistenza immunologica ed induceva danno epatico.
I malati, portati quindi inevitabilmente all’ospedalizzazione, venivano sottoposti a terapie più o meno discutibili, dall’uso sistematico di monoclonali (celebri gli effetti collaterali del remdesivir a carico degli organi interni senza apprezzabili azioni a livello della risposta generale) fino ad inutili e dannosissime terapie iper-ventilatorie forzate che avrebbero dovuto essere escluse a priori proprio per la causa infiammatoria dell’alveolite che affliggeva queste persone. Personalmente, credo di aver curato a distanza circa 1000 malati, dai 3 ai 98 anni, molti dei quali con polmonite bilaterale in atto e saturazioni non ottimali, tutti guariti senza reliquati utilizzando le comuni terapie in uso da decenni. Fortuna? Può darsi, ma allora sono stato fortunato mille volte.
Lei è anche intervenuto in occasione del documentario “La morte negata”. Si può considerare un atto rivoluzionario dire la verità nell’era dell’egemonia sanitaria?
Credo che anche in questa occasione Pasolini avesse ragione. Quello che molti non hanno considerato è che – per la seconda volta in Italia – si è voluto affrontare un tema sanitario con metodiche non estranee ad asserzioni ideologiche, ripetute anche da presidenti del consiglio in carica che non hanno avuto remore nel riproporre pedissequamente evidenti sciocchezze. Esiste una realtà, ma narrarla secondo punti di vista deformanti non la modifica; prima o poi, essa tornerà a reclamare il suo spazio ed il suo ruolo. Esattamente ciò che sta avvenendo ora, quando il tempo ha inevitabilmente capovolto alcuni paradigmi e ci si deve confrontare con le pesanti conseguenze delle realtà parallele diffuse all’epoca.
Certo, dire la verità allora sembrava rivoluzionario ma era soltanto normale, eticamente corretto e rivolto solo alla salvaguardia delle persone coinvolte nella vicenda: sarebbe veramente rivoluzionario ammettere ora i terribili errori del passato ma, per un atto come questo, servirebbe una lealtà ed una solidità morale che fatico ad intravvedere nei protagonisti dell’epoca. Ed anche la cosiddetta commissione parlamentare di indagine, attualmente in attività, sembra più perseguire altri scopi che non una rivoluzionaria verità.
Come vede i prossimi ritorni di fiamma (Covid-19 e presunte varianti) dopo che, come tutti sappiamo, “non è andato tutto bene”?
Sono tentativi di ristabilire un clima di isolamento individuale, di dipendenza da una narrazione terrifica, di affidamento acritico a pensieri dominanti che però non mi sembrano più godere dell’effetto sorpresa della prima volta: anche i Babbo Natale casalinghi perdono di mordente nei bambini anno dopo anno e diventa impossibile ripetere le condizioni che permisero la sospensione dei diritti costituzionali, l’adesione forzata a leggi straordinarie, spesso strampalate, ma – soprattutto – creare ancora quella fascia di consenso necessaria a mantenere in piedi situazioni siffatte, improponibili in una società democraticamente costituita.
Certo, alcuni ospedali propongono di nuovo senza motivo tamponi, mascherine o divieti che, già palesemente dimostratisi inutili artefatti quattro anni fa, ora appaiono addirittura grotteschi; sono stati tentati allarmi ripetuti con malattie improbabili e talvolta comiche; si invoca ancora terrore per l’influenza stagionale e si propongono vaccinazioni di massa con pretesti così trasparenti da risultare quasi patetici.
Tentativi così ripetuti e così palesemente funzionali ad altri fini fanno però supporre, a mio parere, che si tratti di battaglie di retroguardia ormai inefficaci a riproporre reali ritorni di fiamma, complice anche una situazione generale profondamente mutata. Ognuno ricorderà come la notizia covid scomparve all’improvviso dai radar in un giorno dell’ottobre 2022; evidentemente le epidemie sterminatrici, nella nostra epoca, sanno cedere il passo ad eventi diversi e farsi da parte con discrezione da un giorno all’altro.
Che non sia andato tutto bene continuiamo a vederlo ora, non solo da ciò che è accaduto allora ma dai bollettini dei decessi che si moltiplicano impietosamente giorno dopo giorno: anche qua, chiunque avesse una laurea in medicina avrebbe potuto e dovuto prevederlo. Ma forse questo è un altro capitolo.
Analizza i linguaggi specialistici e i loro mutamenti nella società attuale scoprendone dei risvolti insoliti, scomodi, irriverenti. Scrive su tematiche di attualità poco trattate ma non meno interessanti di quelle quotidianamente propinate.