Cercasi Umanità
Il rapporto Caritas ‘’Povertà ed Esclusione’’ presentato durante la conferenza indetta dall’ente il 17 ottobre scorso dal titolo ‘’L’anello debole’’, riporta che nel 13% delle famiglie italiane in stato di povertà assoluta, il componente di riferimento lavora ed è un operaio o assimilato. Per ciò che riguarda i giovani, il dato è sconcertante: ISTAT rileva che il 25% dei ragazzi dai 15 ai 34 anni non studia e non lavora. Sempre l’Istituto, con una ricerca chiusa a settembre 2022, dichiara che il 15,3% dei lavoratori in fascia 20-24 anni è sottopagato, con una media di stipendio mensile più bassa della soglia di povertà assoluta, pari a 853€.
I dati lasciano poco all’interpretazione ma evidenziano certamente una fattualità: se nella storia dell’uomo, il lavoro non solo ha sempre risposto alla mera esigenza dello sostentamento (ed è plastico quanto non è, oggi, nel Belpaese così), ha chiaramente un significato anche e soprattutto valoriale, sociale. Il lavoro è il paradigma di identificazione all’interno della società. L’occupazione in qualche modo ha sempre avuto una diretta corrispondenza con il ruolo all’interno del sistema.
Ma, se il mondo del lavoro in Italia oggi è questo, l’imprescindibile binomio UOMO-LAVORO che significato ha nella nostra contemporaneità?
L’Uomo, con un lavoro che non risponde alle esigenze alle quali un lavoro dovrebbe rispondere, ossia sostentamento e valore sociale, che uomo diventa? Il binomio cade e l’essere umano e il lavoro, perdono la loro strada condivisa per impiegarsi nelle nuove opportunità dello strozzinaggio legalizzato (cfr reddito di cittadinanza), grazie al quale come per i vitelli da filetto viene fornito il pasto ma non certo garantito un futuro, semmai il macello quando, il nuovissimo esecutivo taglierà i fondi e quindi le speranze, che sono anche le prime a morire.
In alternativa alla disoccupazione, al lavoro sottopagato e al suddetto Reddito di Servitù, c’è chiaramente ciò che resta del lavoro che, nello stato dell’arte del nostro Paese, non può che aver preso anch’esso una forma nuova e coerente a ciò che lavoro non è, o non si può chiamare.
Generazioni intere di laureati si ritrovano sul treno alle 7.15 e alle 20.10, come cammelli da soma portano in spalla il lavoro a casa, non saranno certo vitelli da filetto, ma pur sempre capre da latte con il cartellino al collo, e gli occhi stanchi che non hanno visto la luce del giorno. E nonostante il duro lavoro, la paga di qualche centinaia d’euro superiore al reddito che definisce la soglia di povertà, non è permesso avere abbastanza soldi per mangiare al bar, per iscriversi alle palestre vicino agli uffici, per evitare i mezzi pubblici, ma soprattutto non hanno tempo per restare umani. Essere ‘’umani’’ inteso come portatori di istanze proprie dell’umanità, che vanno molto al di la del sopravvivere e essere contemporaneamente Lavoratori, è incompatibile. Senza il lavoro o con un lavoro precario, sottopagato, non è possibile definire il proprio spazio nella società. Con un lavoro che provvede per lo meno al sostentamento, il proprio spazio rimane invece indefinito da un essere umano che di umano non ha più nulla.
E se la tecnologia, la globalizzazione e il progresso stanno ridisegnando i confini del rapporto tra Uomo e lavoro in funzione del mercato, è la politica, intesa come la ‘’l’arte che attiene alla città”, cioè al cittadino, che dovrebbe moderare il cambiamento con una visione antropocentrica, tesa all’Umanità. Chiaramente una politica di cui oggi non vi è declinazione, poiché essa stessa assoggettata alle piazze finanziarie e ai diktat dell’impresa.
In fondo però, qualcosa rimane. Lo slancio imperituro intrinseco nel concetto di Umanità avanza inesorabile e non si arresta. Tra un operaio malpagato e una giovane madre che non riesce a veder crescere i suoi figli, c’è sempre un attimo, un frangente in cui la necessità di restare umani si manifesta. Va colta. In se stessi, nell’altro. Perché se non riusciremo a garantire una casa in eredità ai nostri figli, per lo meno, potremo lasciargli ciò che conta: chi siamo.
Classe 1993 e boomers per scelta (non cercatela su Instagram, non c’è). Laureata in Filosofia con una tesi su la Repubblica di Platone, si ritrova da neolaureata vittima del sistema capitalista (che pensava di poter combattere dai banchi dell’università); dapprima nell’ovvio call center a 5€/ora per poi piombare prevedibilmente in una multinazionale americana nella quale ci sguazza e ci sta bene perché, in fondo, è meglio quando la cultura non dà da mangiare.
Conservatrice per alcuni, Compagna per altri, Rossobruna per gli amici.
Tante virgole e poche cose importanti: per Pensiero Verticale qualche riflessione d’attualità e altra monnezza, con un po’ di stile.