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Esercizio del dubbio: l’aborto, diritto o licenza?

| Claudia Castaldo |

Nonostante l’aborto sia considerato un “diritto”, come attesta la legge che lo garantisce (in Italia la legge 194 del 1978), questa tematica così spinosa lacera ancora l’opinione pubblica spaccandola, come è consuetudine in questi tempi di assenza di dibattito, in due fazioni rigidamente arroccate e contrapposte. Entrambe le posizioni, fortemente polarizzate, lasciano aperte molteplici questioni irrisolte che è necessario sviscerare, poiché prima di avere tante certezze su questo argomento così intricato, come taluni credono di avere, bisognerebbe come minimo avere altrettante domande.

Pertanto, si procederà mediante la rassegna e la scomposizione delle ragioni usate dall’una e dall’altra parte, che etichetteremo con i nomi divisivi che tanto piacciono di ‘abortisti’ e ‘antiabortisti’, al fine di portare ad emersione alcuni interrogativi a cui chiunque, a prescindere dallo schieramento, è chiamato a rispondere. Si disquisirà unicamente dell’aborto volontario non di quello terapeutico, che è dovuto a ragioni mediche specifiche e dunque necessario.

Abortisti

Cavallo di battaglia dei pro aborto è l’autodeterminazione del proprio corpo, ultima conquista del mondo femminista, che si traduce in una semplice e riduttiva esclamazione, espressione a loro dire del concetto di libertà: “il corpo è mio, e decido io”. In effetti, se così fosse non ci sarebbe nulla su cui dibattere, eppure questa dichiarazione così apparentemente forte e così tristemente vuota è inesatta: il corpo è tuo, ma se al suo interno c’è un’altra vita (un futuro altro corpo), come si può scegliere arbitrariamente per quest’ultimo senza invaderne la sua autodeterminazione? Dove finisce la mia autodeterminazione sul mio corpo e dove inizia quella dell’altro?

Questa affermazione dunque non è pertinente, perché potrebbe essere usata ragionevolmente nell’ambito di un trattamento medico-sanitario personale (dove erano tutte le femministe e la loro autodeterminazione quando siamo stati obbligati ad iniettarci un siero?) non certamente a scapito di un altro individuo, cioè quando all’interno del proprio corpo ne esiste un altro, perché ciò implicherebbe una decisione con una ricaduta extra-personale. Si genererebbe dunque uno scontro tra due principi di autodeterminazione opposti. Non meno importante, questa asserzione portata alle estreme conseguenze creerebbe una mentalità al rovescio: poiché ho uno strumento che mi consente di rimediare alle conseguenze di un mio comportamento discutibile, allora, se questo fosse utilizzabile a sproposito, potrei comportarmi in maniera incosciente e dissoluta in quanto potrei sempre accedere a questo ‘salvagente’.
Un ulteriore aspetto, preso poco in considerazione, riguarda la collegialità di questa decisione così importante, infatti non vi è alcuna epoca storica in cui la scelta di abortire sia stata mai presa singolarmente per ragioni personali (perché la nascita non era voluta/ programmata, ad esempio) ma sempre presa in accordo con la famiglia o la comunità di appartenenza che valutavano la specificità del caso in relazione al contesto. Ancora. In questa società attentissima ai diritti di tutti, dove finisce il diritto alla paternità se una donna può scegliere da sola la sorte di una vita creata in condivisione?

Ulteriore proposizione femminista confutabile: “l’aborto legale permette di interrompere la pratica degli aborti illegali che è dolorosa e pericolosa”. Certamente. Eppure se tale pratica è sempre stata considerata illegale, e lo è ancora in molti paesi, evidentemente è proprio perché bisognerebbe prendere in considerazione i motivi per cui viene ritenuta tale senza nascondere la testa sotto la sabbia. Insomma, è come dire: le droghe sono illegali, rendiamole legali in modo che finisca lo spaccio illecito. Il vero punto è che se è una cosa è considerata illegale probabilmente (non sempre!) lo è! Lo è banalmente proprio perché teoricamente sbagliata, nociva, pericolosa, diseducativa .. l’implicazione etica della legalizzazione di qualcosa che è sempre stato illegale, senza una precedente riflessione e in maniera generalizzata, equivarrebbe a dire: è giusto fare ciò in tutte le occasioni. E questa assunzione è evidentemente e logicamente falsa.

In ultimo, prendendo in esame il caso italiano, la legge 194 prevede la possibilità di abortire entro 3 mesi dal concepimento per svariate ragioni, tuttavia prevede anche che questo avvenga per mano di un medico che ne sia d’accordo. In sostanza, questa legge stessa è un paradosso: da un lato prescrive un diritto e dall’altro lo limita sulla base dei principi etici dell’altra entità che è chiamata a compiere suddetto ‘diritto’ (obiettore di coscienza). La realtà paradossale e conflittuale della norma è indicativa della sua contraddittorietà, all’interno della quale emergono prepotentemente le ragioni di entrambe le parti; le motivazioni di un medico riguardano propriamente le sue convinzioni morali, dunque lui potrebbe valutare che non ci sono le condizioni idonee ad un aborto e decidere di non praticarlo, in sostanza non vuole essere corresponsabile di un’ interruzione di vita qualora non vi siano dei criteri medici corrispondenti (aborto terapeutico). Se è vero che il corpo è tuo e decidi tu, allora arrangiati. Se ragioniamo tutti in termini di privatizzazione e individualizzazione della morale, le conseguenze sono queste: la mia visione egoistica del mondo contro la tua.

Antiabortisti

Sulla linea opposta vi sono coloro i quali ritengono che la vita sia in ogni cosa, e che vada difesa ad ogni costo. Per loro l’aborto è un crimine contro la vita, al pari di un omicidio, a prescindere dalle ragioni e dalle casistiche. Arroccati su questa prospettiva più conservatrice e più spirituale da ritenersi al riparo da qualsiasi critica, molto spesso aderiscono inconsapevolmente e ipocritamente a tale punto di vista senza porsi alcuna domanda in merito. I paladini della vita a tutti i costi dimenticano di interrogarsi su cosa significhi vivere. Il mistero della vita ci invita ad auto interrogarci prima di giudicare le scelte altrui: quando inizia la vita? Esiste o si può stabilire univocamente un criterio oggettivo di demarcazione della vita, ossia da quale momento dello sviluppo embrionale il feto smette di essere un ammasso disorganico di cellule e diventa il punto di cominciamento dell’essere umano? E se queste domande sono troppo stringenti e non permettono di cogliere che la vita è un fluire a cui non si possono porre paletti, allora perché molte donne di questa cerchia assumono la pillola anticoncezionale ad esempio? Se l’aborto è qualcosa che scegli a cose fatte e per questo è tacciabile di giudizio negativo, perché non si potrebbe giudicare con altrettanta superiorità chi assumendo contraccettivi blocca dalle origini il processo di vita? Non è forse questo un metodo che si oppone alla vita, giacché queste sono le argomentazioni di questa parte di opinione pubblica. Tracciata una linea guida poi ognuno si serve degli strumenti della scienza e del progresso per piegare gli eventi ai propri interessi specifici e pratici. Assumendo il contraccettivo, anticoncezionale appunto (già il nome parla da sé, serve ad impedire il concepimento ad atto sessuale completo), si può comodamente avere la naturalità del gesto fino alla fine senza avere le conseguenze che quell’atto implica, facile no?

Inoltre, bisogna anche contestualizzare storicamente e geograficamente l’aborto. È chiaro che in società diverse dalla nostra, come quelle precedenti o quelle localizzate in ambienti differenti con diverse culture, dove la donna non ha un valore e una dignità e dove sono diffuse le pratiche di stupro e di violenze sessuali, l’aborto è uno strumento necessario per rimediare a situazioni nelle quali i rapporti sono asimmetrici e non consensuali (utile quindi anche nella nostra società in casi come quelli sopradescritti). Pertanto, opporsene senza valutare opportunamente le circostanze in cui tale strumento diventerebbe utile, è una forma di egoismo al pari della posizione opposta.

In conclusione, si scontrano da una parte la logica della morale privata fatta su misura e dall’altra la volontà di conservare un’etica nel mondo ma solo quando fa comodo. Dal progressismo sfrenato e autoreferenziale al conservatorismo religioso non interrogato (e talvolta ipocrita), il punto in comune è l’adesione cieca ad un paradigma di riferimento che viene abbracciato senza porlo mai in esame, facendo in modo che la tematica dell’aborto rimanga sempre relegata alla dimensione della chiacchiera che sfocia in litigio. E finché si vivrà in una società deeticizzata, multiculturale, dove non esiste una cornice valoriale condivisa che restituisce il senso comune delle cose rimarremo ingabbiati nella logica doppia ‘della mia opinione contro la tua’. Finché, in ultimo, non si affronteranno le domande di senso più profonde allora non si saprà mai conferire un orientamento teorico e riflessivo alle scelte pratiche: che cosa significa vivere? C’è vita oltre la definizione scientifica di respirare, mangiare e dormire, nella dimensione altra dello spirito? Che ruolo giocano la dignità e la qualità della vita nell’atto del vivere?

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