Generazione Ə
Come ben sappiamo, la lingua italiana è interessata da decenni da neologismi, calchi e forestierismi provenienti in misura maggiore da oltreoceano in maniera tutt’altro che naturale ossia non per via di una reale esigenza (termine mancante nella lingua di arrivo) bensì per una vera e propria perdita di identità linguistica frutto dell’imposizione dei linguaggi relativi ai settori più moderni e modernizzati (moda, informatica e finanza per citarne alcuni).
LO “SCHWA”
Tuttavia, il caso in questione non riguarda una vera e propria ingerenza dall’esterno poiché l’uso del simbolo schwa (Ə) è stato ideato dall’italiano e per l’italiano nella denotazione di un linguaggio inclusivo. Gli stessi tentativi, per intenderci, che hanno contraddistinto l’uso dell’asterisco e della chiocciola in quanto avrebbero ovviato alla “discriminazione grammaticale” attuata dal genere maschile.
Come riportato dall’Enciclopedia Treccani: “Scevà (adattamento italiano di Schwa, trascrizione tedesca del termine grammaticale ebraico shĕvā /ʃəˈwa/, che può essere tradotto con «insignificante», «zero» o «nulla») è il nome di un simbolo grafico (meglio, di un segno paragrafematico) ebraico costituito da due puntini [:] posti sotto un grafema normalmente consonantico, per indicare l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto. Lo scevà è un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità.”
VOCALE INDISTINTA PER MASSE INDISTINTE
Quale miglior esempio per “neutralizzare” le barriere di genere se non quello di una vocale indistinta, in mezzo a tutte, che non rappresenta nulla? Eccone un chiaro esempio: “Buongiorno a tuttƏ, sono unƏ ragazzƏ e vivo in Italia.” Ora, passi la sua applicazione nella lingua scritta (come sta succedendo in alcuni casi sporadici) ma come potrebbe essere riprodotto tale suono in quella orale considerando che non si tratta di un suono definito ma soprattutto che si debba partire dal presupposto che non si vuole attribuire un genere specifico ad una persona? Non è un caso che l’Accademia della Crusca, così come linguisti ed accademici, abbiano bocciato categoricamente questi esperimenti linguistici volti unicamente a creare confusione all’interno di un’intera comunità di parlanti.
LA GRAMMATICA COME PROBLEMA POLITICO
Torniamo lì, signori: la grammatica italiana è sinonimo di patriarcato e siccome viviamo in una società civile questa pratica vetusta va osteggiata, combattuta e sconfitta. In che modo? Introducendo un fonema dal significato nullo dopo i reiterati fallimenti nel cambiamento delle desinenze di genere in -x e -z in nome della Nuova Normalità “fluida”. Ecco che la grammatica, pilastro portante della struttura di una lingua e regolatrice della comunicazione a livello sociale, diviene un problema politico. L’assurdità di questa proposta sta proprio nel voler portare all’eliminazione dell’identità di genere (non alla creazione di un neutro, si badi bene) quando basterebbe essere semplicemente consapevoli di ciò che si è.
Non si tratta nemmeno di essere particolarmente puristi o faziosi poiché se per “lingua” definiamo un “sistema di suoni articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni (lessemi e sintagmi), e di forme grammaticali (morfemi), accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e sintattiche”, capiamo bene che i problemi di inclusione sociali non possono certo essere risolti dall’oggi al domani con l’introduzione di un anonimo fonema.
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