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Il Donbass, l’Ucraina e la guerra delle parole

In linea con i tempi che corrono, anche la guerra in Donbass non è stata salvata dal campo di battaglia più impervio degli ultimi 10 anni: i social network. Nell’impietosa trincea delle piattaforme Meta si avvicendano da poco più di un anno a questa parte (e bada bene, non prima) opinionisti di ogni colore e forma, fronteggiandosi a colpi di motti e adesivi sul tema della guerra in Donbass. In base alle ondate stagionali, il calendario bellico social è scandito quando da specialisti di tattica, quando da commentatori geopolitici. Il cuore principale della questione rimane però sempre lo stesso: non le barbarie perpetrate a un popolo inerme da nove anni, non i risvolti economici su scala mondiale, non le possibilità di pace. No, sui social si parla di ideologia. Se a inizio secolo i pensatori si accomodavano in eleganti salotti per discutere le sorti dell’Europa, oggi i divani Chesterfield che sorreggono il peso (intellettuale) dei teoreti sono ancora più confortevoli: veloci, a portata di mano, dai quali si può pontificare a qualsiasi ora del giorno e della notte. In una sola parola: smart. La velocità che implica questo prototipo di intelligenza non lascia però molto spazio a ciò che dovrebbe essere la base imprescindibile di una buona analisi della realtà, ossia la realtà stessa.

Il nazismo sperato…

Partiamo dai fatti: dal lato ucraino è innegabile la presenza di un movimento nazionalista, che rafforzatosi negli anni, utilizza la simbologia del periodo nazionalsocialista tedesco. Che di neo-nazionalismi ne esistano a bizzeffe e che molti nazionalismi siano nati da spinta esogena e non abbiano nulla di accomunabile con i nazionalismi europei di inizio secolo, poco interessa. Il susseguirsi di soldati con le rune, SS, soli neri e chi più ne ha più ne metta, è riuscito a fare ciò che in Italia non sono riusciti a fare 40 anni di politica extraparlamentare: mettere d’accordo sinistra e destra. La sinistra esulta trovando finalmente una prova tangibile dello spauracchio fascista, convalidando l’eterno pianto greco senza il quale non potrebbero essere ancora in vita. La destra esulta, avendo trovato finalmente nell’Ucraina l’Urheimat dalla quale far risorgere il fuoco sacro della sovranità europea.

…e il comunismo ad formam

E così, se tanto ci da tanto, la guerra in Donbass si tinge magicamente di rosso. Rosso comunismo, si intende. Come se non bastasse, il sillogismo russo=comunista viene sigillato a inizio operazione speciale dalle parole di Putin in persona: l’Ucraina va “denazificata”. Fin qui, gli schieramenti sembrano a tutti abbastanza chiari, specie tenendo d’occhio la simbologia onnipresente sul territorio del Donbass, perfettamente calzante per perorare la causa di una guerra comunista e anti-sovranista. Eppure, come succede di solito, basta andare (fisicamente, come nel nostro caso) oltre il confine per poter riuscire a vedere con un po’ più di chiarezza la realtà dei fatti.

Se ci fosse un diritto di successione dell’Unione Sovietica, il Donbass sarebbe il primo nell’asse ereditario: fiore all’occhiello della produzione carbonifera e siderurgica, rappresenta dagli anni ‘30 in poi un polo industriale fiorente, in cui tanti cittadini della Federazione Russa si trasferiscono per poter lavorare. Il benessere dei prosperosi decenni sovietici decade miseramente dal ‘91 in poi, anno della costituzione dello Stato ucraino. La presenza di abitazioni popolari in stile brutalista, fabbriche abbandonate e stelle rosse testimonia la miseria in cui i corrotti governi ucraini dagli anni ‘90 in poi fanno riversare la regione, piuttosto che la persistenza dell’ideologia comunista: infrastrutture inesistenti, deindustrializzazione, calo demografico, tagli alle istituzioni e alle scuole. Non proprio ciò che chiameremmo tutela del territorio da parte di uno Stato sovrano: proprio quello Stato che oggi catalizza miliardi dall’Occidente per riprendersi le stesse terre che per 30 anni ha abortito e lasciato nel degrado. Inoltre, non ci dovrebbe stupire l’attaccamento del popolo russo nei confronti di un momento storico in cui il proprio Paese, con tutte le controversie del caso, ha conosciuto stabilità economica, vinto una guerra mondiale e soprattutto ha ricostruito un senso di appartenenza al concetto di Patria. Un attaccamento, a noi europei, storicamente non concesso.

La rivoluzione socialista e tradizionalista in Donbass

Possiamo quindi considerare il richiamo simbolico al comunismo in Donbass (e generalizzare la riflessione a tutta la Russia) come un legittimo attaccamento alla memoria storica del proprio Paese, il che non sottintende necessariamente implicazioni politiche. Anzi. Come vediamo, l’esperimento della Novorossija e, in seguito, delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, è sorretto da basi ideologiche non strettamente allineabili al modello comunista: basti pensare, tra le altre cose, al ruolo centrale della religione Ortodossa, alla nazionalizzazione del bene comune da un lato, ma agli incentivi al mercato privato dall’altro, alla lotta all’usura, fino alla concezione di Stato multipolare, in cui la multietnicità non è imposta e non rappresenta un problema da risolvere, ma al contrario, è la benzina per il motore dell’Impero. Il Donbass russo capitalizza sull’Uomo, sulla sua natura fisica e spirituale, sulla famiglia: non a caso i primi elementi ricostruiti nelle città liberate sono le costruzioni popolari, per restituire il diritto fondamentale della casa ai cittadini e ai soldati, le scuole e i parchi per lo sport. Proprio in fede al tanto decantato concetto di autodeterminazione dei popoli, il Donbass si è ribellato all’eliminazione del proprio: un popolo consapevole delle proprie origini, rispettoso di sé stesso e della propria tradizione, che si è visto perseguitato sotto ogni punto di vista della sua esistenza. 

L’integrità nazionale distrutta, o ricostruita?

La convivenza tra ucraini e russi fino a un certo punto della storia non era mai stata messa in discussione. I due popoli, al netto di manipolazioni astoriche e dell’avvicendarsi di narrazioni politiche poco obiettive, si sono considerati sempre fratelli. È fatto che restrizioni, povertà e terrore sono aumentati in Donbass in maniera direttamente proporzionale all’avvicinarsi dell’Ucraina all’Unione Europea. Sulla base di questo punto di vista, osservando questa storia sedendosi dall’altra parte del confine, andrebbe ragionato in maniera più approfondita su chi sia davvero il separatista. 

Inoltre, abbiamo visto come il modello di mondo nuovo che propone il Donbass stride con quello dell’Occidente libero e democratico, fatto di povertà, degrado, futilità spacciate per valori e diritti. Proprio quello scenario che, seppur criticato, viene difeso a denti stretti da una certa destra conservatrice, la quale, offuscata da una narrativa ingannevole e dimentica delle proprie basi ideologiche, si ritrova a difendere la “resistenza del popolo ucraino” a braccetto con l’ANPI. Se questa è la fine misera che hanno fatto le ideologie occidentali, ultimo zoccolo duro contro atlantismo e capitalismo, l’Europa può davvero cominciare a tremare.

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