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Il ritorno di Rosie the Riveter

Negli Usa fa nuovamente capolino un personaggio divenuto celebre a inizio XX secolo, stiamo parlando di Rosie the Riveter (Rosie la Rivettatrice), icona statunitense assurta alle cronache grazie al suo profondo portato propagandistico.

ROSIE IN GUERRA

Siamo nel 1942, a pochi mesi dalla disfatta di Pearl Harbour il governo americano elabora un piano per incentivare, tramite l’operato dei privati, onde evitare un’eccessiva esposizione governativa, la produzione di beni di guerra, facendo leva sul sentimento di (indotta) partecipazione popolare. Compariranno, tra svariate iniziative, quasi immediatamente e su spinta dello United Auto Workers manifesti di propaganda come quelli di General Motors in cui compariva gli slogan “Together We Can Do It!” e “Keep ‘Em Firing!”.

In seguito, un fotografo ebbe l’occasione di ritrarre Doyle, una giovanissima operaia, all’epoca impiegata in una fabbrica di Ann Arbor, nel Michigan, dedita allo stampaggio dei metalli. Va comunque specificato che ancora ad oggi vengono attribuite diverse identità alla “Rosie” originale.

Fu lo sbuzzo di un artista di nome Howard Miller a dar vita all’icona Rosie the Riveter, il cui nome era già comparso in una canzone poco prima: tramite l’aggiunta di una bandana rossa, il rigonfiamento flessorio del bicipite, il pugno chiuso e l’impressione dello slogan “We can do it”, a completare l’operazione a livello grafico. Il poster fu poi utilizzato dal Comitato Interno per il Coordinamento della Produzione Bellica del colosso manufatturiero Westinghouse Electric con l’obiettivo di creare una serie di manifesti per incentivare il lavoro degli operai e scongiurare l’assenteismo. Nel frattempo, Rosie divenne l’immagine più iconica delle donne lavoratrici. I punti focali su cui l’operazione di propaganda andò a battere con più decisione furono il dovere patriottico, il fascino del lavoro, il paragone con l’impiego domestico, l’orgoglio coniugale.

L’immagine di Rosie the Riveter fu utile nel convogliare forza lavoro femminile verso le fabbriche, propaganda che fu poi dismessa nel dopoguerra, quando invece era necessario reintegrare la parte maschile che rientrava dal fronte. Il poster di Rosie fu poi ripreso per dare spinta a un’ulteriore operazione di propaganda femminista degli anni Ottanta in cui l’immagine della ragazza fu ripresa in chiave di quella che oggi chiamano empowerment.

OGGI E’ ANCORA IERI

A distanza di ben quattro decenni Rosie the Riveter fa nuovamente la comparsa e, anche in quest’occasione, la manipolazione sociale risponde alla logica che lega a doppio filo capitale e strategia governativa, sebbene vada specificato che oggigiorno il rapporto penda, in termini di rapporti di forza e fine ultimo, a favore delle grandi corporate, abili a sostituire il vuoto del potere politico e ad innestarsi come nuovi modelli di riferimento etico, in merito si veda il cosiddetto capitalismo woke.

E così, dopo aver fatto ingurgitare a intere generazioni tutte le mirabolanti prospettive della gig economy che, attraverso la promessa della liberazione dal lavoro dalle nove alle cinque, disponeva su un insidioso piano inclinato il processo di mobilità (leggasi precarizzazione, lavorativa ed esistenziale) di un’intera generazione di statunitensi (e occidentali) fino al recente contrordine.

La vita entro il perimetro della gig economy pare quindi non essere così soddisfacente: “La paga è spesso orrenda e non c’è equilibrio tra lavoro e vita privata mentre si trasportano persone in città come autista Uber o Lyft o si consegna cibo per DoorDash.”

LA PROPAGANDA NON CAMBIA MAI

Ed è il patinatissimo sito TheDrum a farci digerire ancora una pillola di una ipocrisia indigeribile: “Per la prima campagna di Adam&EveDDB per BlueForge Alliance, gli spettatori assistono a una versione modernizzata di “Rosie the Riveter”, una figura simbolica che storicamente rappresentava il contributo delle donne alla forza lavoro durante la Seconda guerra mondiale. Avanzando rapidamente al 2024, questa versione contemporanea simboleggia la perseveranza, la fiducia e il perseguimento di una carriera appagante. La narrazione segue il suo viaggio mentre passa da lavori temporanei alla scoperta di una carriera stabile e gratificante nella produzione marittima.” Qual è la mission della Blueforge? “La mission di BlueForge Alliance è consentire all’industria manifatturiera dei sottomarini di costruire e mantenere la prossima generazione di piattaforme sottomarine americane”.

Arriviamo quindi al punto conclusivo di questa breve carrellata, in cui si evince il filo rosso che lega gli interessi strategici a stelle e strisce al capitale delle grandi corporate, entrambi proni ad utilizzare la propaganda, correttamente chiamata “comunicazione”, come arma di persuasione e reindirizzamento sociale.

Gli Usa, negli ultimi trent’anni, dopo l’ubriacatura della globalizzazione e della conseguente delocalizzazione, hanno gradualmente effettuato un cambio di rotta avviando un processo di autonomizzazione energetica (vedasi fracking e recente politica dello shale gas e conseguente reshoring) e di reindustrializzazione. D’altronde “Make America Great Again” e “Build Back Better” sono gli stati gli slogan delle presidenze Trump e Biden, entrambi volti a contrastare la crisi socioeconomica interna, in cui anche le recenti misure del Bidenomics si sono rivelate insufficienti, e a riequilibrare, soprattutto ai danni dell’Europa (eventualmente anche con la vittoria di Donald Trump), l’industria interna e non è un caso che il promotore dello spot in questione sia la Bluforge Alliance “partner di integrazione senza scopo di lucro della Marina degli Stati Uniti e della sua base industriale sottomarina che consente iniziative che rafforzano e sostengono il settore manifatturiero marittimo.”

Quand le bâtiment va tout va!

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