La piazza e il coraggio
Alla fine l’hanno fatta. L’avevano detto, annunciato, proclamato al punto che non si capiva più quale fosse il tema: la Palestina o il “no” di Piantedosi. Entrambi validi, solo il primo un pochetto più “nobile” del secondo. Qualche sera prima del 5 ottobre, sul 4, ultimo baluardo del compianto Cavaliere e del neoliberismo centrista, anche gente come Delmastro si è dovuta adattare al ritmo e del canale e del partito: se fossimo in tempo di pace potremmo quasi pensare che il vero interesse della Famiglia Meloni e tutti gli altri che si portano appresso (che poi è il governo), sia una qualche agenzia di tour operator con base a Tel Aviv.
Le fantasie si sprecano nel cercare il vero motivo di cotanta servile docilità (che finisce poi per non piacere nemmeno al padrone). Non soltanto per la posizione atlantista così arcignamente tenuta in politica estera in generale, per essersi spinti fino al tragico punto di negare l’autorizzazione alla manifestazione.
PIAZZA O NON PIAZZA
Per non sprecare parole sulla democrazia e tante altri paradossi di questa post-modernità, il tema del “no” è sic et simpliciter una scelta politica sulla piazza. E si sa, da sempre, che c’è una grande differenza tra il fare politica “in” piazza e fare politica “contro” la piazza. Se nel primo caso alla fine ci si mette tutti d’accordo, nel secondo, invece, è come versar benzina sul fuoco. Può trattarsi nè più nè meno di una semplice miccia, poi però non si ferma più. E gli scontri, i tafferugli ne sono la naturale patogenesi, o perlomeno lo scenario più facilmente prevedibile. Da una parte la solita polizia, dall’altra i soliti incappucciati.
È ovvio e chiaro che se sulla strada non si riesce a prender davvero le parti di qualcuno quel che si sa è che questa piazza “palestinese” è, intrinsecamente, anche una rappresentazione di ciò che con la politica si può fare: dire qualcosa. Prerogativa questa, persa e dimenticata dai partiti positivi, rappresentabili alla stregua di puro spettacolo di retroguardia, appiattiti ormai come fogli di carta velina: sottili ed unidimensionali, senza identità. Liquidi, insomma. Come la società di baumaniana memoria.
Sfangato il pericolo di un processo alla Corte Europea per “attentati-alla-libertà-e-ai-diritti-delle-persone” stile Genova 2001, Giorgia Meloni si è dimostrata ancora una volta “equilibrata”: la responsabilità del “no” alla piazza si è rivelata, in fin dei conti, una voce flebile e controllata.
Ci piacerebbe poter pensare che profondamente ed intimamente a Giorgia sarebbe piaciuto scendere in piazza. In ben altri contesti, sia chiaro. A difendere ben altre barricate, è ovvio. Ma riscoprendo, con un pò di romanticismo, l’antico e mai sopito sapore della piazza, generatrice e fomentatrice di quella forza che la politica vera ti può dare. Ma quel che manca sempre, alla fine, è il Coraggio.
Classe 1993 e boomers per scelta (non cercatela su Instagram, non c’è). Laureata in Filosofia con una tesi su la Repubblica di Platone, si ritrova da neolaureata vittima del sistema capitalista (che pensava di poter combattere dai banchi dell’università); dapprima nell’ovvio call center a 5€/ora per poi piombare prevedibilmente in una multinazionale americana nella quale ci sguazza e ci sta bene perché, in fondo, è meglio quando la cultura non dà da mangiare.
Conservatrice per alcuni, Compagna per altri, Rossobruna per gli amici.
Tante virgole e poche cose importanti: per Pensiero Verticale qualche riflessione d’attualità e altra monnezza, con un po’ di stile.