“La tv (in streaming) è l’arma più forte”
a cura di Laerziade
In Italia negli anni ‘70 del secolo scorso iniziò il processo di liberalizzazione delle TV private, ammesse solamente in ambito locale. Negli anni ’80 nacquero le prime tv private nazionali, con la forzatura operata da Berlusconi e la nascita di Mediaset. E’ a seguito di questo passaggio epocale che il pubblico conobbe le serie tv americane, la pubblicità martellante, le televendite, la creazione di programmi di intrattenimento pensati per le reti private, con costumi più divertenti e licenziosi rispetto alla tradizionale compostezza della RAI in bianco e nero.
Da sempre sono i mezzi di comunicazione a influenzare e a favorire i contenuti, non viceversa: il rapporto tra l’invenzione della stampa di Gutenberg e la diffusione della Riforma Protestante insegnano. Per questo motivo i broadcast digitali hanno compiuto una vera rivoluzione nel mondo dell’intrattenimento. L’evoluzione della tv digitale ha affinato sempre più la sua capacità di dare allo spettatore quello che vuole: in effetti la personalizzazione è la parola chiave del mondo digitale e dell’Artificial Intelligence. Ogni utente ha un profilo con il quale accede alla piattaforma, e seleziona i contenuti che più gli piacciono. In questo modo l’algoritmo impara a conoscere le sue abitudini, i suoi gusti, le sue morbosità, persino gli stati d’animo. La logica secondo cui vengono proposti i contenuti si è radicalmente modificata: ai tempi della tv di massa venivano elaborati programmi, serie e film, poi proposti al pubblico che si sondava con l’Auditel. Oggi è possibile elaborare contenuti sempre più vicini al gradimento del pubblico di riferimento, segmentando lo stesso e proponendo il contenuto giusto al momento giusto (proprio come fanno Google e tutti i social network).
Il “pubblico” non è più una cosa sola, un’entità comunitaria che condivide all’unisono le medesime emozioni e reagisce in maniera corale, diventando parte dello spettacolo come in un anfiteatro greco: è frammentato in una miriade di singoli “utenti”. Persino le famiglie, che prima si riunivano davanti alla tv cercando una sintesi generazionale e selezionando contenuti che potessero essere graditi da nonni e nipoti, uomini e donne, oggi si frammentano in tanti singoli schermi, maxi o mini.
In questo scenario assurge al ruolo di semi-monopolista globale Netflix. In Italia conta 9,2 milioni di abbonamenti (seguono Prime Video con 7 milioni e Disney+ con 3,5). Ma questi numeri (probabilmente inficiati anche da molto abusivismo, ovvero condivisione dello stesso abbonamento da parte di più persone) sono ancora lontani da quelli USA, dove 4 americani su 5 sono abbonati.
La comunicazione di Netflix è on demand per definizione, ma non è imparziale. Anzi, è estremamente orientata. Propone in maniera ossessiva modelli di diversità: oltre all’ormai inflazionatissimo filone lgbtq+, la produzione si è spinta a girare i remake di grandi film con protagonisti tradizionalmente e storicamente bianchi rivisitandoli in chiave “black”: l’eroe Achille ma anche Arsenio Lupin e la Regina d’Inghilterra. A questo punto sarebbe interessante vedere Samuel L. Jackson interpretare i presidenti Trump, Bush o Clinton e magari Kevin Spacey nei panni di Obama (o forse Frank Underwood di House of Cards era proprio lui?).
In realtà il record assoluto planetario di incassi e visualizzazioni è stato conseguito da Squid Game, il più grande successo di una serie distribuita dal broadcast. Un horror-splatter sudcoreano che raggiunge altissime vette di violenza e cinismo, la cui trama è degna del peggior incubo conseguente a indigestione di frittura mista e alcool si possa avere. Oggettivamente bellissimo nella regia, nell’interpretazione, nella scenografia. Il pubblico non aspettava altro. Per quanto riguarda la classifica dei film, al primo posto troviamo Red Notice, un film d’azione (e fin qui nulla di strano); ma al secondo si piazza Don’t Look Up. Il protagonista è un ormai maturo ed esperto Di Caprio, alle prese con una satira politica che, sulla scorta della retorica del cambiamento climatico, prende di mira direttamente la presidenza Trump (l’idea del film è del 2019, anche se l’uscita è avvenuta nel febbraio 2021, quindi a elezioni concluse e travagliata transizione presidenziale avvenuta). La metafora del meteorite può adattarsi al cosiddetto negazionismo del climate change, ma forse anche al cosiddetto negazionismo del covid. Insomma un film comico-satirico impegnato, con chiari riferimenti a fatti e persone realmente esistiti anche se ben camuffati dalla trama fantascientifica.
Netflix propone questi e un’infinità di altri contenuti, tutti accattivanti e capaci di allietare i propri utenti anche durante i peggiori lockdown. Ha raggiunto la vera globalizzazione dei contenuti, sfornando serie tv a un ritmo impressionante, capaci queste ultime di sviluppare una dimensione introspettiva dei personaggi di gran lunga più profonda di quanto possa fare un film, portando lo spettatore ad immedesimarsi e quasi a plagiarlo. A questo punto il rischio è che da quello schermo spunti fuori a venderci la salvezza eterna una resuscitata Wanna Marchi. Impossibile? Ehm….
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