I Meganoidi sono tra noi
Gli anime, i.e. cartoni giapponesi, rappresentano da tempo l’efficace compromesso tra i gusti cinematografici di un padre e le necessità sui contenuti che un figlio piccolo possa avere. Tra quello che si guarda alla sera è recentemente capitato un grande classico: Muteki kōjin Daitān 3 altrimenti detto Daitarn 3, l’invincibile uomo d’acciaio. Uscito nel 1978, incarna la visione positiva del futuro che caratterizza generalmente l’era atomica, quella cultura insomma perdurata fino alla caduta del muro di Berlino, dove l’uomo nonostante tutto e seppur con il pensiero costante della deflagrazione nucleare credeva comunque che sarebbe riuscito a mettersi in salvo grazie alla vittoria delle proprie virtù sui propri difetti.
Per venire al nocciolo, la storia qui raccontata vede l’archetipo eroico nei panni di Haran Banjo preso nella lotta contro i temibili Meganoidi. Chi sono costoro? Erano esseri umani, ora sono cyborg o robot vestiti da uomini, ovvero ex persone che hanno rinunciato alla propria natura per acquisire poteri e longevità che solo le macchine possiedono. I Meganoidi vogliono schiavizzare l’umanità e trasformare i “migliori” esemplari in meganoidi. Hanno sviluppato una tecnologia sorprendente con la quale hanno realizzato le “macchine della morte”, una strana sorta di astronavi/robot, spesso dotate di immense mani, che rende i comandanti meganoidi in grado di trasformarsi in Megaborg, enormi robot da combattimento.
Ricorda qualcosa? Già, eccome, ricorda a quarant’anni anni di distanza ciò che oggi è noto come transumanesimo, ovvero il credo di coloro che si abbeverano alla fontana del Metaverso, che vivono con sempre più odio la loro condizione di finitezza umana, perché la loro identità era così fluida da divenire sciolta, perché stanno dimenticando cosa significhi essere uomini. I Meganoidi, o meglio i malvagi cervelli che li producono e dirigono, odiano l’essere umano, la sua mortalità, la finitezza della sua forza fisica: il loro obiettivo finale è non a caso la distruzione del pianeta Terra, patria di coloro che hanno rifiutato la trasformazione cibernetica.
Difficile dibattere se l’Uomo sia o meno il padrone del Creato. Certo più facile riconoscere che egli rimanga padrone della Macchina scaturita dal suo ingegno. Uno dei problemi del ventunesimo secolo è che a troppe persone venga meno questa certezza, e i racconti di fantasia – o fantascienza che siano – servono anche a porre questo rischio di fronte alla nostra coscienza.
Haran Banjo è un eroe positivo: forse un po’ macchiettistico, infallibile (siamo comunque ancora negli anni settanta dell’animazione), non è nemmeno un bifolco con la clava (alla maniera dei vecchi luddisti) che auspica la distruzione di tutte le macchine ed il ritorno ad una vita agreste. Anzi costituisce l’anima del grande robot Daitarn 3, ennesimo parto della fascinazione giapponese scaturita dall’incontro tra l’archetipo del samurai e le meraviglie della tecnologia postbellica e del volo spaziale. Ma Haran rimane comunque un uomo che guida una meravigliosa macchina e che la tiene sotto stretto controllo. E che, come recita la memorabile sigla del nostro doppiaggio, contro gli “intrighi e loschi piani dei mostri disumani … ha l’energia solare che è invincibile”.
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