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Patire per non fallire

Secondo un recente studio dell’OCSE, in Italia si lavora di più ma si guadagna meno. Il paradosso è spiegato da Skytg24: “L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico assegna la maglia nera al nostro Paese in merito ai salari, nonostante il livello di occupazione negli stati dell’area sia ora ai massimi storici. Peggio di noi solo Repubblica Ceca e Svezia. In Italia il 2023 ha registrato un calo del 6,9% rispetto al 2019, ma l’allarme riguarda anche la stagnazione dei salari reali che tra il 1991 e il 2023 sono cresciuti solo del +1% contro il 32,5% della media dei Paesi dell’organizzazione”.

Il “livello di occupazione ai massimi storici”, con relativo abbassamento del livello di disoccupazione anch’esso ai minimi storici dal 2001, è sicuramente un dato incoraggiante e ci fa capire che il peggio sembra essere ormai alle nostre spalle. Ciò però non implica una condizione di benessere economico poiché dagli stessi dati si evince che la retribuzione annua lorda è addirittura scesa negli anni, classificando il nostro Paese al 21° posto tra i 34 più sviluppati a livello internazionale.

CONFONDERE PER NON COMPRENDERE

Eppure siamo quotidianamente bombardati da parole incoraggianti utilizzate per menzionare i ‘segnali di ripresa’ della nostra economia. Già, perché parlare di economia a una platea tanto diffusa quanto eterogenea è molto difficile e spesso è inevitabile l’uso di tecnicismi o espressioni dal significato oscuro per i non addetti ai lavori; ben diverso è edulcorare la realtà ricorrendo a figure retoriche aventi lo scopo di confondere il lettore o l’ascoltatore, aumentandone la confusione. Immancabile è la menzione alla “resilienza economica”, già ampiamente conosciuta e discussa durante il periodo pandemico alla quale si aggiungono le numerose metafore, analogie e circonlocuzioni soprattutto quando vi è una commistione con il linguaggio politico.

SMANTELLARE LA CRITTO-LINGUA

Il lavoro di ingegneria linguistica alla base di tali informazioni rende spesso l’utente incapace di comprendere e assimilare quanto letto o ascoltato, il che comporterebbe un ulteriore processo analitico per ogni espressione ritenuta poco fruibile. Questo linguaggio riservato ai “pochi eletti” andrebbe altresì semplificato proprio al fine di permettere un’adeguata comprensione da parte dei destinatari. Parliamo pur sempre di argomenti di interesse quotidiano che devono essere adeguatamente compresi per una corretta comunicazione mediatica.

Tale soluzione risiederebbe nell’utilizzo del Plain Language, un metodo di scrittura già introdotto nei Paesi anglosassoni (USA e Inghilterra) per facilitare la comprensione di documenti con un alto grado di specializzazione come quelli medici e legali. In Italia la proposta è soprattutto quella di avvicinare il più possibile alla sfera comune il linguaggio delle istituzioni o “burocratese”, abbattendo le inutili complessità terminologiche e instaurando una comunicazione chiara e diretta.

Ad oggi, però, la standardizzazione linguistica sembra non trovare ancora terreno fertile con il risultato di una comunicazione sempre più unilaterale che l’utente non solo non recepisce ma che rinuncia addirittura a comprendere. Peccato che a soppiantare le parole arrivino i dati o i fatti, i quali lasciano scarso o nullo margine di interpretazione.

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