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Politicamente corretto: facciamo chiarezza

| Righetto |

Chiunque abbia dimestichezza con la lingua italiana (ne sia verosimilmente un parlante), si sarà accorto che ha qualche decennio è in corso un processo di labor limae linguistico volto a eliminare una qualsiasi espressione fastidiosa nei confronti di una o un’altra categoria sociale. Questo è senz’altro un aspetto positivo ma un conto è il ‘ridimensionamento’, un altro l’imposizione di un vero e proprio codice che dalla lingua arrivi a plasmare il pensiero dell’individuo. In sostanza, si è davanti al linguaggio del ‘politicamente corretto’.

Secondo l’Enciclopedia Treccani, esso rappresenta: “un calco della locuzione americana politically correct, con cui ci si riferiva in origine al movimento politico statunitense che rivendicava il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere, ecc. e una maggiore giustizia sociale, anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio”[1]

Il fenomeno linguistico del ‘politicamente corretto’ nacque infatti intorno agli anni ’60 del secolo scorso negli Stati Uniti all’interno dello schieramento della sinistra americana. All’epoca il termine faceva leva sull’aggettivo ‘corretto’ in quanto era frutto di una direttiva lanciata dal partito marxista-leninista. Inoltre, secondo Guitart, sembrerebbe che suddetto linguaggio attinga dal libretto rosso di Mao Tse-tung. Attualmente, per contro, si conferisce maggior risalto all’avverbio ‘politicamente’ per via del fatto che fu proprio la sfera politica a impadronirsi di questo ‘linguaggio’ in quanto proprio dalla politica dipendono le decisioni prese o da prendere riguardo alla gestione di uno Stato: l’obiettivo è garantire l’uguaglianza tra cittadini adottando un linguaggio ‘neutro’ allo scopo di cambiare in positivo la società[2].

In realtà si è partiti dal linguaggio per manipolare la persona. Già, perché ora il politicamente corretto è un vero e proprio stile di vita al quale bisogna attenersi, pena la gogna mediatica e il relativo rovescio della medaglia come l’accezione di fascista, razzista, nazista, sessista, intollerante, medievale e chi più ne ha, più ne metta. Eppure gli atteggiamenti di adesso sono gli stessi di duemila anni fa, perciò viene da chiedersi: a cosa (o a chi) giova questo radicale cambiamento di abitudini? Purtroppo non ci è dato sapere. Anzi, guai a farlo presente. Il risultato sarebbe la solita manfrina moralista che ci additerà come retrogadi nello sdegno collettivo.

Ciò che è stato inizialmente concepito al fine di evitare discriminazioni in merito al sesso, alla condizione fisica, alla classe sociale o alla professione lavorativa è culminato con una serie di figure retoriche che hanno stravolto il nostro linguaggio a tal punto da toglierci anche la ‘sovranità linguistica’.

Ebbene, questa corrente di pensiero nata a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che inizialmente era esclusivo appannaggio della sinistra intransigente ritornò in auge nel 1990 con gli articoli di Richard Bernstein, un giornalista del New York Times che, questa volta, connotò il politicamente corretto in maniera negativa riscuotendo i consensi dei neoconservatori americani, andando così a creare una dicotomia: si cominciò a parlare anche di politicamente ‘scorretto’.

La disputa, ormai divenuta politica, si infiamma nel 2010 con l’ascesa di Donald Trump: mentre vent’anni prima vi era un tentativo di resistenza alla ‘contaminazione linguistica’, con Trump si passò direttamente all’attacco volto a distruggere il politicamente corretto in ogni sua forma. Peccato che quella che doveva essere una correzione costruttiva a un tentativo politico di manipolazione linguistica si trasformò in uno specchio per le allodole per mascherare atteggiamenti sessisti e xenofobi.

La verità, come sempre, sta nel mezzo. Siamo d’accordo sul fatto che non vi è nulla da eccepire se si interviene sul linguaggio per tutelare classi o categorie di persone; ciò che si deve evitare è (s)cadere nella trappola della superficialità ossia scandalizzarsi per aver udito termini che fino a poco tempo prima erano assolutamente in voga o agire aprioristicamente in modo contrario a come si dovrebbe (siccome sono ‘politicamente scorretto’ offendo chiunque mi capiti a tiro perché sono contro il ‘politicamente corretto’). Ma siamo davvero sicuri che gli eufemismi “non vedente” e “non udente” conferiscano maggiore rispetto a un cieco o a un sordo? O magari è il caso di aiutarli in altri modi come tecnologie a loro supporto, ad esempio? Perché il problema è tutto qui: non bisogna soltanto cambiare il termine e renderlo ‘più bello’ ma l’operazione linguistica deve avere anche una finalità sociale (ad esempio il riconoscimento di diritti per ciechi e sordi). In sostanza: “Il politicamente corretto nasce, forse, da un impulso di generosità: evitare di offendere le persone, quando possibile, è una cosa giusta. Ma è da tempo una piaga e una minaccia. Ci obbliga a pensare costantemente a una manciata di argomenti – che riguardano prevalentemente le identità razziali o sessuali, ma anche di altro tipo – ma ci rende impossibile parlare in modo aperto e onesto di quegli argomenti.”[3]

Dalla moderazione alla deriva

In rapporto alla dicotomia oramai creatasi tra la sinistra politicamente corretta e la destra politicamente scorretta, è necessario sottolineare che la stessa sinistra recentemente è intervenuta per ‘arginare’ il fenomeno del politicamente corretto poiché ciò che inizialmente era stato concepito come un processo di miglioramento della società attraverso il ridimensionamento del linguaggio è culminato con la censura indiscriminata, arrivando a minare addirittura la libertà di espressione. Così riporta un articolo de L’Osservatore romano:

Un’assolutizzazione del relativismo: non è un ossimoro, ma è il risultato di un processo culturale che, attraverso la declinazione linguistica, si è imposto come critica distruttiva di un’idea di società in positivo. Parliamo dell’ideologia riassumibile nell’espressione politically correct. Apparentemente si tratta di una sollecitazione sempre più pressante a modificare il linguaggio perché sia più rispettoso delle diverse sensibilità possibili, ma in realtà è il tentativo sottile di alterare la lingua per modellare la mentalità, imponendo lo sgretolamento di un’idea di convivenza basata su principi condivisi[4].

Si è terminato di chiamare le cose con il loro nome, perdendo così la ‘libertà di linguaggio’. La rivista Storia in rete riporta la seguente affermazione:

Un modello censorio e totalizzante capace di delegittimare l’avversario tacciandolo con reiterati cliché (razzista, antidemocratico, xenofobo, sessista, intollerante, fascista) che, non a caso, spesso, vengono presi – e deformati – dalla esperienza storica. Una ortodossia che, attraverso censure e divieti, esercita coercizione sul lessico e sulla complessiva dialettica pubblica, con una potenza di fuoco capace di piegare tanti di coloro i quali si pregiavano di essere anticonformisti[5].

Questa è l’epoca in cui il politicamente corretto si trasforma in buonismo. E, paradossalmente, la causa è da individuare proprio all’interno dei suoi promotori ossia le università americane di matrice progressista che, imponendo questo nuovo ‘codice’ all’interno della società, hanno portato alla nascita della contro-corrente del ‘politicamente scorretto’. Queste tematiche sono approfonditamente analizzate all’interno del libro di Eugenio Capozzi Politicamente corretto, interamente dedicato all’argomento. Lo stesso autore sottolinea come questa corrente di pensiero nata negli ambienti accademici della sinistra progressista statunitense volesse alimentare il ‘sogno comunista’ e distruggere ogni riferimento storico, sociale, politico e culturale dell’Occidente.

L’arma più potente di cui dispone il politicamente corretto, oltre all’uso di figure retoriche, è senz’altro la censura selvaggia: non ci si trova pertanto davanti alla salvaguardia del pudore, bensì a revisionare tutto ciò che potrebbe apparire discriminatorio. I nudi nell’arte e i grandi classici della letteratura vengono messi all’indice mentre famose opere teatrali o letture di ordinaria amministrazione come Il mercante di Venezia e Huckleberry Finn vengono ‘rivisitate’ per ovviare alla damnatio memoriae del passato, dove apparivano antisemite o razziste. Una costola del progressismo che ci spinge ad odiare la nostra propria civiltà. Il nemico siamo noi, le nostre abitudini, ciò che ci contraddistingue e ciò che ci circonda. L’Europa va cambiata, le sue tradizioni vanno cancellate, il cristianesimo è una religione obsoleta, il maschio bianco è per indole razzista e sessista. Gli eroi sono dall’altra parte del mondo. Si viene a creare quindi un nuovo dualismo: bene e male sempre in nome del politicamente corretto:

La concezione del conflitto elaborata dal tardo-progressismo dell’Occidente autofobo é, insomma, una sorta di riproposizione rudimentale della visione illuministica: in essa si distingue soltanto la luce delle tenebre, l’avvento di un’era rosea di felicità dalla resistenza ostinata operata dalle forze dell’oscurantismo. Per tale motivo non solo la propaganda, la retorica, la pedagogia civile generati dalla nuova ideologia rivestono, nel suo progetto di società, un’importanza cruciale; esse si caratterizzano anche per un’impostazione severa, rigoristica, manichea. Partono dall’idea che, una volta rivelata, la verità insita nella dottrina debba fisiologicamente venire accettata da tutti, e che le voci dissenzienti non possano che essere attribuite a una persistente, inspiegabile incapacità di comprensione razionale o a una sorta di perversione diabolica, a un ostinato rifiuto delle «magnifiche sorti e progressive» derivanti dall’affermazione di nuovi paradigmi culturali.

Ne discende che la tendenza alla delegittimazione e, all’estremo, alla demonizzazione degli avversari politici e, nella cultura politica del progressismo post-anni Settanta, altrettanto pronunciata che nelle ideologie totalitarie del Novecento. In questo caso, essa si concretizza innanzitutto nella costruzione di categorie spregiative per indicare le opinioni dei dissidenti, relegandole (e rilegandoli) in uno spazio di esclusione totale da qualsiasi possibilità di discussione civile, in quanto portatori di odio e discriminazione: l’avversario è «razzista», «intollerante», «sessista», e poi «omofobo», «islamofobo», e via di questo passo (…)[6]

Si è arrivati al punto di non poter più dire ciò che si pensa e molti argomenti sono diventati tabù: parlare di immigrazione incontrollata e delle sue conseguenze equivale ad essere etichettato come ‘razzista’, difendere la famiglia tradizionale corrisponde ad essere ‘omofobo’, dichiararsi apertamente cristiano e schierarsi in favore del crocifisso nelle scuole è sinonimo di intolleranza verso le altre religioni. Gli esempi sarebbero infiniti. Ci troviamo davanti a un vero e proprio codice da rispettare: in parole povere, GUAI A QUALIFICARSI PER CIÒ CHE SI È:

D’altronde se è vero che la parola serve per agire, non è detto che denominare risolva un problema concreto. Al contrario, l’azione svolta dalla parola può consistere nel nasconderlo o posticiparne la risoluzione. Per intanto tenetevi il nome nuovo poi quando riusciamo a fare qualcosa che lo rispecchi vi avvertiamo. La posizione relativa di questi gruppi pare in effetti migliorata assai meno di quella linguistica[7].

In conclusione, siamo tutti d’accordo sul fatto che le fasce più deboli della società e le minoranze vadano tutelate da discriminazioni e attacchi gratuiti; ciò che non possiamo accettare è la creazione di una serie di artifici linguistici per modellare a proprio piacimento la società. Se da un lato eufemismi e metafore producono dei cambiamenti esclusivamente a livello linguistico senza apportare miglioramenti a quello sociale, dall’altro l’ergersi come gli ‘anti’ della situazione porta a fare esattamente il loro gioco e crea terreno fertile per accuse e strumentalizzazioni di ogni tipo. La lingua al suo interno contiene numerosi linguaggi che, pur essendo particolarmente diretti, vanno comunque rispettati. Con buona pace di accademici e progressisti.


[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/politicamente-corretto_%28La-grammatica-italiana%29/.

[2] Cfr. D’Angelo G., Il linguaggio della crisi finanziaria spagnola: analisi retorico – semantica, Università degli studi di Macerata, Macerata, 2017, p.85.

[3] https://www.ilpost.it/2016/11/03/politically-correct-trump/.

[4] https://www.tempi.it/politicamente-corretto-ideologia-libro-capozzi-recensione-osservatore-romano/.

[5] AA.VV., Storia in rete, gennaio 2019, n.159, Zona Franca Edizione s.r.l., Roma, p.10.

[6] Capozzi E., Politicamente corretto. Storia di una ideologia, in ‘Storia in rete’, gennaio 2019, Zona Franca Edizione s.r.l., n.159, p. 18-19.

[7] http://www.remobassetti.it/il-futuro-della-democrazia/politicamente-corretto/.

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