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Vittorio Pozzo e quella Nazionale da sogno

Sono passati ormai novant’anni da quando, il 10 giugno 1934, allo Stadio Nazionale del PNF (ora Stadio Flaminio, purtroppo completamente in stato di abbandono) l’Italia, sconfiggendo per 2-1 dopo i tempi supplementari la Cecoslovacchia, diventava campione mondiale per la prima volta nella sua storia. Un anniversario passato sotto silenzio ed il motivo è presto detto: non si può ricordare né tanto meno celebrare qualcosa che sia avvenuto durante il Ventennio fascista, pure se l’evento in sè non ha nulla a che fare con la politica. Perché, sebbene qualcuno nel corso degli anni abbia provato ad inventarsi improbabili aiuti e complotti, quella era una Nazionale magnifica ed il suo essere passata giustamente alla storia ha un nome ed un cognome: Vittorio Pozzo.

IL “VECIO”

Pozzo era un piemontese di origini modeste, alpino tutto di un pezzo dedito al lavoro e con un’enorme passione per il calcio fin dalla tenera età (cosa inusuale in quel periodo per un italiano, in uno sport da noi dominato da inglesi e svizzeri). Come calciatore era mediocre, ma contribuì alla creazione del Torino, squadra di cui poi fu sempre grande tifoso, tanto da essere uno dei primi a raggiungere Superga in lacrime nel 1949 per identificare i giocatori periti nel tragico incidente aereo.

UNA FIGURA VOLUTAMENTE DIMENTICATA

Divenne ben presto allenatore degli Azzurri e, dopo il trionfo del 1934, vinse l’oro Olimpico a Berlino nel 1936 ed un secondo Mondiale in Francia nel 1938, in quello che può essere considerato il suo vero capolavoro, in quanto l’Italia era ormai un paese nemico oltralpe ed il clima intorno alla squadra era a dir poco ostile. Politicamente aderì al regime fascista, ma tenne sempre il suo gruppo (che era a dir poco fenomenale, basti citare Meazza e Piola) lontano dalle questioni politiche, concentrandosi esclusivamente sull’aspetto sportivo, che preparava con cura maniacale.

Al termine del secondo conflitto bellico la Federazione lo costrinse alle dimissioni, venendo considerati i suoi successi legati ad un’epoca che si voleva dimenticare. Vittorio non se la prese troppo, anzi continuò come consigliere perché amava troppo quel semplice gioco con la palla creato dagli inglesi ma che lui aveva reso grande. Morì nel 1968 all’età di 82 anni e la sua vicenda umana e sportiva meriterebbe francamente ben altro ricordo.

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